Abstract:
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Bhuvaneswari Bhaduri è, secondo il resoconto di Gayatri Spivak in Can the Subaltern Speak?, “una ragazza di sedici o diciassette anni”[1]. Si tratta di un’indipendentista indiana. Nel 1926 partecipa all’organizzazione di un crimine politico, che non va a buon fine. La giovane, spinta da vergogna per l’insuccesso conseguito, decide di suicidarsi. Sapendo che le circostanze della morte potrebbero indurre a pensare a una gravidanza illecita, Bhuvaneswari Bhaduri attende le mestruazioni per togliersi la vita, volendo in tal modo connotare politicamente il suo tragico atto: un eloquente segno che la drammatica morte non era conseguenza di una relazione illecita. Un segno eloquente? Al contrario, argomenta Spivak. È, piuttosto, una scelta vana. Spivak – che venne a sapere del caso di Bhuvaneswari Bhaduri attraverso resoconti determinati da legami di famiglia – racconta di avere chiesto, prima di iniziare a studiarne il caso, informazioni su Bhuvaneswari Bhaduri a una donna bengali, una studiosa di sanscrito e filosofa: “due le risposte ottenute: (a) perché, se le sue due sorelle, Saileswari e Rãseswari, hanno vissuto vite così piene e meravigliose, tu ti interessi all’infelice Bhuvaneswari? (b) ho chiesto alle sue nipoti. Sembra che sia stato un episodio di amore illecito” (traduzione nostra). Ecco, i subalterni non possono parlare, conclude Spivak. I subalterni non disponendo di un discorso proprio, non possono che vedere la propria voce dissolversi e finire sovvertita per le interferenze del discorso del Potere, egemonico e ipertrofico. A nessuno, insomma, era venuto in mente che il suicidio fosse politico. |